Il giornalismo d’inchiesta non è mai esistito. In Italia.

Se “riveli” particolari di inchieste giudiziarie, non stai facendo un’inchiesta, ma sei la buca delle lettere della Procura. O degli avvocati. O delle parti civili. Non stai facendo un’inchiesta.

Se pubblichi “esclusive” su indagini, sei un cronista di nera che riferisce quel che gli dicono gli investigatori. Non stai facendo un’inchiesta

Se anticipi i contenuti di questo o quel provvedimento politico, magari definendolo una “porcata”, sei megafono della maggioranza o dell’opposizione che ti hanno passato la notizia. Non stai facendo un’inchiesta.

Se racconti “una storia”, non stai facendo un’inchiesta.

Se fai un “viaggio” fai un reportage, non un’inchiesta.

Se esprimi la tua opinione, non fai inchiesta. E nemmeno il giornalista, ma l’opinionista.

Nei giornali-telegiornali-siti italiani c’è tutto questo, più una discreta quantità di imprecisioni e bufale. Non “giornalismo d’inchiesta”.

E forse non c’è mai stato.

Una catastrofe “nascosta”?

11232897_997356020295613_7926666588601605695_n[1]Sembra di essere in un teatro di guerra, o in una delle immani catastrofi che contempliamo in giro per il mondo. E disastro è stato, il passaggio del tornado che mercoledì 8 luglio ha colpito una vasta zona della Riviera del Brenta, causando un morto, decine di feriti, crolli e danneggiamenti a case e anche a una villa storica.

Eppure.

Eppure il risalto dato a questa catastrofe sui media è stato minimo, quasi nullo. Al di là dell’impegno delle televisioni locali, Tg e trasmissioni delle emittenti Tv e radio nazionali hanno relegato la notizia all’equivalente di un trafiletto. Lo stesso i grandi quotidiani nazionali, più o meno web e social network – meno facili da monitorare “a occhio”, ma comunque a nessuno è venuto in mente di fare quelle belle “classifiche” sui trend o gli hashtag, anche perché forse a nessuno, in Riviera, è venuto in mente di inventarsene uno.

Tanto per fare un paragone con qualcosa di più vicino, niente “battage” a confronto delle – pur tremende – alluvioni di Genova, o del – povero – bimbo morto in metropolitana a Roma (che nella atrocità e assurdità del fatto merita il giusto rilievo).

L’unica cosa che pare aver sollevato un certo interesse pare sia stato il filmato in automobile nell’occhio del ciclone condito di bestemmie, condiviso più per ilarità, tipo “Guarda i soliti veneti blasfemi!”

Insomma, ce ne sarebbe per rivendicare ancora una volta l’indifferenza dell’Italia verso i Veneti, “quei leghisti, evasori, ben gli sta, s’arrangino…” mi immagino le frasette nelle redazioni romane…

O forse c’è qualcos’altro. Provo a elencarlo, a naso:

– Lo scarso “peso” dei media locali, o di quelli nazionali con sede in regione. Tradotto: non esiste a Nordest un quotidiano di caratura nazionale, non esistono Tv di livello, non redazioni locali che sappiano proporre o uscire dagli stereotipi ideologici;

– L’atteggiamento “antagonista” della classe politica verso il resto dell’Italia. Non solo di quella leghista. Ma anche;

– La progressiva perdita di figure positive e “orgogliose” nella cultura, nel giornalismo, nell’imprenditoria. Abbiamo appena salutato Giuseppe Bortolussi. Ecco, e non abbiamo più un Giorgio Lago, tanto per dire…

Comunque, maniche arrotolate e ci si rialza. almeno così si fa da queste parti.

 

Corsi e ri-corsi

[Cose di insegnamento…]

Ogni tanto si ritorna sul luogo del delitto. Per esempio, al Centro Kolbe di Mestre, dove sono stato allievo e pure “docente” dei vari corsi di cultura del giornalismo negli anni passati (e qualche allievo ancora ci campa…)

Stavolta mi produrrò in un corso di “Giornalismo ai tempi del Social”, assieme all’illustre Carlo Felice Dalla Pasqua.

Le iscrizioni sono aperte fino al 30 aprile. Sono cinque incontri da due ore e mezza a Mestre.

Se qualcuno è interessato, si faccia avanti numeroso!

Giornalista? Io?

C’è un ruolo sociale che sto ricoprendo in maniera diversa e nuova anche grazie all’uso dei social?

Il dubbio mi viene dai feedback delle persone che incontro. Feedback non costituito da commenti, like o retweet ma semplicemente dai commenti a voce, quando ci si incontra per altre cose e ci scappa il commento sulla mia produzione social, che fa parte del nostro tempo.

Così amici e conoscenti mi hanno “riso in faccia” citando tweet e post delle mie disavventure ferroviarie. Oppure mi hanno fatto i complimenti quando segnalo link o notizie sulla vita della città o sulla politica, su Twitter o Facebook.

E allora mi chiedo qual è la mia identità che viene rappresentata in Rete.

Perché di rappresentazione si tratta, e forse molti se lo dimenticano, quando chattano, postano, twittano, scrivono un blog.

E – metti caso che i social vengano usati per il recruiting dalle aziende – si vede che sono un giornalista? Forse perché trattengo sull’attualità, magari con qualche considerazione personale? Perché vario a 360° un po’ su tutto quel che mi circonda? Forse.

Non è banale farsi domande del genere, anche per chi è un “semplice utente”.

Twitter ha vinto?

Mi è stato ricordato che oggi è il quinto anniversario del mio esordio su Twitter. Forse ce n’era stato uno precedente, poi abbandonato, ma insomma…
A parte le date presunte, posso dire che l’uccellino è progressivamente diventato il mio social media preminente. Pur abitando altre realtà in rete, Twitter rappresenta per me uno strumento di consultazione ormai imprescindibile nella giornata.
Ovviamente il mio uso dipende dalla mia condizione professionale, quella di giornalista di agenzia abituato e quasi “ammalato” di aggiornamenti a ciclo continuo. È altrettanto vero che il mio flusso di cinguettii non è fatto di notizie, né preminentemente di account di colleghi. Ci sono osservatori e retwittatori, questo sì, per cui l’attualità irrompe in un contesto che però è anche di riflessioni, battute, link, foto, spiritosaggini e confidenze.
Dunque, un po’ di tutto di quel che mi circonda e che amo.
Il resto fa da contorno: Facebook ha un ruolo di risulta (grazie a Selective tweets), il blog personale mi impegnerebbe troppo tempo, ora come ora, per una cura più assidua.
Devo dire che anche professionalmente Twitter aiuta molto, nella raccolta di spunti e fonti da approfondire, in un lavoro comunque di distribuzione velo e delle notizie che è quello dell’agenzia.
Per inciso, sono il redattore ANSA con più followers :-), e modestamente ho contribuito alla nascita dei primi canali ufficiali dell’agenzia su Twitter. Sì potrebbe far meglio, ma ci abbiamo anche guadagnato un premio.
Al netto delle strategie future di questo prodotto, lunga vita!

P.S.: @mante sarebbe il mio “padrino” della mia entrata su Twitter. Grazie Massimo, ma che vuol dire?

Verità e responsabilità

Caro Enzo Iacopino, faccio il bastian contrario.
La sentenza Sallusti ci fa stare ben attenti quando scriviamo, è vero.
Ma attenti a scrivere il vero, o almeno il verificato.
A fare il nostro dovere.

A me, povero redattore qualunque, fanno due volte la punta alla matita se scrivo una virgola fuori posto.
Quella notizia era falsa. Falsa. Pretesto per un attacco personale, come spesso ne abbiamo visti, in questa povera Italia che mischia il giusto e l’imbroglio con la scusa delle libertà.

Non mi arruolo nella schiera di chi grida alla morte della libertà, dimenticandosi della responsabilità.
Mi spiace, ma la libertà ce la si conquista giorno per giorno, e non so se per quell’articolo l’Ordine competente non sia intervenuto.

Lo dico a te non perché tu abbia “colpe” ma perché so che su temi come questo ci giochiamo la credibilità di una professione.

Quale professione?

Io sono uno che riesce a farsi mettere “in crisi” – nel senso positivo – anche dalle contumelie e dalle idiozie, ma vorrei riuscire a capire qualcosa di più sul senso di ciò che faccio e del mio lavoro. Soprattutto quando questo lavoro è una professione esposta alle critiche di tutti e non solo degli addetti ai lavori.

C’è una linea di difesa della professione di giornalista che a mio parere sta scricchiolando da molto tempo, ed è quella che insiste sul concetto di “professione”: “Vi fareste operare da uno non iscritto all’ordine dei medici? No? E allora vi fidereste di una notizia trattata da chi non lo fa per professione?”. A parte il fatto che le bufale e le stupidaggini da chiacchiere al bar non si contano più, sui vari tipi di medium, dalla carta al web passando per la tv e la radio, e a parte il fatto che di medici cialtroni che continuano a professare imperterriti ce n’è anche troppi…

Guardiamo a come si è evoluta – o devoluta – la sedicente professione. Gianluca Amadori, presidente dell’Ordine veneto, ha usato spesso la definizione di “insaccatori” di parole, di comunicati stampa o di notizie d’agenzia, per i colleghi ridotti a ingranaggi di una macchina editoriale. E questa è colpa degli editori certo, anche se molti colleghi vi si trovano bene dentro: un bello stipendio col minimo sforzo.

Ma è anche vero che non vale più nemmeno la retorica della “strada”: “Io vado a trovarmi le notizie sulla strada, ho le mie fonti, le notizie le trovo, non le aspetto”. Certo, bene. Ma chiediamoci anche dove è finito l’approccio critico alle fonti. Molti colleghi – anche molte testate – sono diventati non degli “insaccatori” ma sostanzialmente dei portavoce, di teorie, di ideologie, di pregiudizi. Uno potrebbe obiettare: si chiama “linea editoriale”. Ma a volte sembra essere un laccio da cui non ci si riesce a liberare, nemmeno di fronte all’evidenza di alcuni fatti. E l’istituto della rettifica viene messo bellamente da parte

Che differenza, allora, con il “citizen” che fa da megafono molte volte a teorie bizzarre, a bufale, a complotti? Non è vero che ormai anche noi professionisti pecchiamo di superficialità, fretta, voglia di dare spettacolo, esibizionismo? Tutto questo cosa ha a che fare con il professionismo?

Dovremmo tornare – altro bell’aggeggio retorico – al rispetto per il “lettore”. Un lettore abbassato al rango di target pubblicitario fa tanto anni ’80, ed è un concetto ampiamente biasimato (anche se credo sia ancora ben vivo); altrettanto lo è il lettore concepito come “pubblico” da piegare alle proprie convinzioni, da “affiliare” (ma dopo un po’ si stancherà, vedrai).

Da dove ripartire, se si vuole ripartire, per dare dignità al giornalismo? Dalla cura, dalla verifica, dal soppesare le cose, dal voler capire senza aver già capito tutto? Domande da Ferragosto…

A margine dello scudetto

Visto che c’ero, qualche considerazione a margine.

– Lo stadio Rocco di Trieste ha la peggiore copertura di telefonia mobile che mi sia capitato di vedere. Sono bastate 20 mila persone (e relativi smartphone?) a ingolfare la rete, tanto che non si poteva né connettersi né telefonare. Per inviare i pezzi ho visto giornalisti raminghi con un portatile in mano aggirarsi nel parcheggio fuori dalla sala stampa.

– Pare che Cellino verrà rincorso fin nella Barbagia dai tifosi inferociti per la lontananza della sede e i prezzi dei biglietti. Credo che nella curva del Cagliari ci siano entrati in poco più di 500.

– In tribuna e sala stampa decine di infiltrati pseudo-giornalisti a far foto. Il calcio è una terra di nessuno.

– Il calcio è in mano alle TV: a parte le riprese con decine di telecamere – ché stare in tribuna stampa è inutile, faccio l’inviato in ufficio – tutte le dichiarazioni di giocatori e tecnici passano prima per Sky e Rai, poi sono rifritture degli stessi (pochi) concetti. Il resto è show dei cronisti…

– Complimenti all’Ufficio stampa della Juve: con tutto quello che c’era da festeggiare e nella concitazione generale ha portato alle interviste Conte, Buffon e Del Piero. Il meglio.

– Avere una radiolina con Francesco Repice e Riccardo Cucchi (stava in cabina dietro di me…) che si alternano nelle radiocronache è una goduria.

Poi divertitevi pure con 28 o 30 scudetti, di due o tre stelle. Quello è pane per i “circenses”.

Però la partita è stata emozionante, e dopo sei anni vedere vincere uno scudetto dal vivo è grande!

Ma in che rete vivete?

Una sgangherata “Amaca” spara contro Twitter, senza capirne la logica, scambiando la parte (i contatti) per il tutto (il SN).

Poi l’accusa va contro i 140 caratteri che non favorirebbero l’approfondimento. Ma guarda un po’. Eppure piace tanto scrivere battute fulminanti, aforismi, telegrammi, Jene…

Poi leggo che il radical chic sarebbe in crisi solo perché un paio di trasmissioni non raggiungono lo share sperato.

E’ solo questione di reti. La mia rete è quella in cui mi rispecchio, quella di mio figlio non è la mia, non so se è meglio. C’è qualche punto di contatto reale, per esempio tra me e mio figlio, che si approfondisce nel dialogo e nella comprensione reciproca. Reti che si toccano, appunto.

Non isole che giudicano altre isole. Non atolli esclusivi – o torri d’avorio – che credono ancora di lanciare messaggi alle folle e di essere seguiti come pifferai magici.